I bambini della Shoah, gli innocenti che hanno pagato il prezzo più alto (FOTO)

I bambini della Shoah
@getty

L’infanzia è un periodo spensierato e felice, libero dalle costrizioni e dalle falsità dell’età adulta. Le fatiche, la stanchezza, le preoccupazioni non appartengono ai bambini, puri e innocenti.

C’è stato però un periodo, gli anni più bui e vergognosi della storia dell’uomo, in cui la spensieratezza fu strappata con violenza e ferocia dalle menti di questi innocenti, un’intera generazione deturpata dell’età più bella. Gli anni della Seconda Guerra Mondiale e della soluzione finale nazista, hanno portato tutti i bambini ebrei a crescere istantaneamente, costretti a scegliere tra la morte e la loro infanzia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in molte zone d’Europa occupate dai tedeschi, iniziarono a istituirsi i vari ghetti, luoghi dove gli ebrei venivano recintati da alte mura, con regole ferree che gestivano la loro vita, a causa della visione nazista sulla superiorità della razza ariana e l’inferiorità e impurità di quella giudaica. Quando iniziarono i primi rastrellamenti, gli ebrei più fortunati scappavano dalle zone a rischio per rifugiarsi in porti sicuri. Quelli che non riuscivano a scappare, si rintanavano in luoghi nascosti, da amici e sostenitori. Chi non riusciva a nascondersi, veniva denunciato, catturato, imprigionato e deportato.

I genitori pensarono così che il modo più sicuro per proteggere i loro figli, fosse quello di separarsi da loro. Nel migliore dei casi, venivano affidati a qualcuno fuori da ogni sospetto, come le suore dei conventi. Nel peggiore, venivano abbandonati, divenendo fantasmi nelle città, orfani senza alcun legame, costretti a pensare al proprio sostentamento.

Della vita degli ebrei nei nascondigli, ne abbiamo letto nell’eterno Diario di Anna Frank, icona di quell’innocenza strappata dalla violenza e ignoranza. Ma fuori da quel nascondiglio, vivevano migliaia di bambini per le strade, soli e impaurito.

Nel ghetto di Terezin, il più grande sul territorio della Cecoslovacchia, una zona di passaggio prima di venire portati nei campi di concentramento, 15.000 bambini erano abbandonati a loro stessi, per le strade della città, vivendo di stenti, elemosinando qualcosa da mangiare. I più piccoli venivano accuditi dai fratelli e dalle sorelle maggiori che cercavano di aiutarli come potevano. Morivano di fame, per il freddo, privati della loro età più bella.

In questo ghetto c’era una tiepida isola felice, l’orfanotrofio gestito da Janusz Korczak, scrittore e pediatra, che tentava di aiutare come poteva i suoi piccoli ospiti. Offrendo un riparo e un’istruzione, Korczak ogni giorno visitava famiglie e scriveva lettere, alla ricerca di fondi per mantenere il suo istituto e donare un pasto caldo ai suoi bambini.

Attraverso i suoi scritti, oltre che utili indicazioni per lo sviluppo dell’educazione infantile, possiamo rivivere i momenti difficili vissuti nel ghetto. Una delle immagini più forti è il racconto di una “normale” giornata nel suo studio. Korczak guardava fuori dalla finestra e vide il corpo di un bambino sul ciglio della strada. Non riusciva a capire se fosse ancora in vita. In quel momento arrivarono dei bambini che armeggiavano con una corda. Quando la corda si intricò intorno a loro, i due iniziarono a tentare di districarla. Intralciati nell’operazione da quel corpo, decisero di spostarsi per continuare nel lavoro, discutendo su di chi fosse la colpa. Korczak aveva descritto la quotidianità della morte.

Il dolore più grande per Janusz era sicuramente quello dell’inevitabilità della sorte. Sapeva che prima o poi qualcuno sarebbe venuto per prendere quei bambini e portali nei campi di sterminio. Ogni giorno, quindi insegnava loro il rispetto per loro stessi, la dignità, e quando quel giorno arrivò, Korczak si unì a loro, guidando la lunga coda che dall’orfanotrofio, portava ai treni con cui sarebbero stati condotti al loro destino.

I bambini della Shoah
@getty

Nei campi di concentramento, i più piccoli, quelli al di sotto dei 13 anni, venivano condotti immediatamente nella camere a gas. Lo scopo era: “eliminare i più piccoli per estirpare una razza“.

I più grandi, invece, potevano essere utilizzati come forza lavoro e per esperimenti scientifici che poco avevano a che fare con la scienza. Se la vita nel ghetto era dura, qui era infernale. Malnutriti, privati dell’igiene, i bambini venivano protetti e accuditi dagli altri detenuti che cercavano di alleviare quella sofferenza come potevano. Ma gli esperimenti, la dura vita e la poca comprensione delle guardie naziste, strappavano alla vita ogni giorno piccole esistenze.

Dell’esperienza nel campo di concentramento ne ha parlato e scritto Tatiana Bucci, sopravvissuta ad Auschwitz e agli esperimenti che venivano tenuti dal Mengele, conosciuto come il dottor Morte.

Dai campi di concentramento, pochi riuscirono a salvarsi. Dei 15.000 di Terezin, solo un centinaio riuscì a scampare alla morte.

Si calcola che circa 1.500.000 di bambini ebrei perse la vita a causa della follia nazista. Ma fra le vittime, non ci furono solo ebrei:

    • molti bambini delle famiglie Rom,
    • quelli con malformazioni fisiche
    • o problemi psichici (tra i 5.000 e i 7.000, all’interno di quello che viene chiamato progetto “Eutanasia”)
  • e anche quelli non-ebrei all’interno delle rappresaglie contro i gruppi partigiani.

Quei fortunati che dopo la resa della Germania nazista, riuscirono a sopravvivere ai campi di concentramento, iniziarono a vivere come rifugiati. Mentre venivano ricercati dai genitori sopravvissuti, si spostarono dalla Germania dell’Est verso quella Occidentale. Molti partirono per Yishuv, la zona d’insediamento ebraico in Palestina, alla ricerca di una normalità che avevano perduto. Ma che forse non avrebbero mai più riconquistato.

Ogni anno, il 27 gennaio, ricordiamo l’Olocausto. Eventi, manifestazioni, approfondimenti riempiono questo periodo per ricordarci di non dimenticare. Non dimenticare l’orrore, il terrore e la brutalità che invasero il mondo, in modo particolare l’Europa, scatenando la sua rabbia su uomini, donne e bambini. Il nostro impegno, però, dovrebbe essere costante durante l’anno. Una memoria perenne, che ci porti a ricordare e rileggere la nostra quotidianità. Che ci spinga a raccontare e tramandare questi ricordi, affinché tutto questo non accada mai più. Affinché uomini e donne non muoiano per un pensiero. Affinché i bambini non siano mai più costretti a diventare adulti e possano vivere la loro innocenza, la loro spensieratezza, la loro purezza stupendamente infantile.

E voi unigenitori, la pensate come noi?

Impostazioni privacy