“L’inclusione non è un luogo fisico ma uno stato della mente”

Tom W. Shakespeare, disabile, è uno dei principali protagonisti  del dibattito scientifico internazionale sulla disabilità. 

Ha insegnato in diverse università inglesi e dal 2008 al 2013 ha lavorato con l’Organizzazione Mondiale della Sanità alla realizzazione del Rapporto mondiale sulla disabilità, pubblicato nel 2011. Attualmente insegna Sociologia medica.

Nei giorni scorsi era in Italia per il convegno di Rimini della Erikson “La qualità dell’inclusione scolastica e sociale”. 

Le sue parole sono davvero illuminanti. Nel lungo intervento che ha fatto durante il convegno tradotto dal mensile Vita quello che mi pare fondamentale è il punto di vista. Noi normodotati probabilmente pensiamo che i disabili siano tutti uguali: non facciamo distinzioni tra disabilità fisiche o psichiche, non capiamo i reali bisogni di ogni individuo. Probabilmente non li concepiamo come persone in grado di raggiungere dei risultati autonomamente e per questo forse siamo eccessivamente propositivi.

Le persone disabili non sono persone a cui potete fare cose, ma sono persone autonome nel pensare e fare le cose per sé. (..) io voglio che voi siate amici e mi diate la mano quando ne ho bisogno, quando lo voglio e quindi rispettando la mia dignità” dice Shakespeare.

Cambiamo atteggiamento sulla disabilità 

Dall’altra parte è vero che ci riempiamo la bocca di concetti come “inclusione” e “didattica inclusiva” quando in realtà è un progetto forse irrealizzabile. Ogni disabile ha la propria storia, non è detto che ciò che va bene per esempio per chi ha una disabilità fisica possa andare bene per chi ha l’autismo. Per l’uno magari è importante che non ci siano barriere architettoniche, per l’altro che non ci siano 30 bambini in classe visto che i suoni e i rumori sono destabilizzanti.

Non c’è una formula, non dovrebbe esserci nessuna ideologia, dovremmo avere un orientamento da seguire e seguire i dati empirici, l’evidenza, ciò che funziona per i ragazzi, ciò che permette loro di imparare, di sviluppare le proprie competenze sociali, per sentirsi inclusi, sicuri e questo non è la stessa cosa per tutti i ragazzi con disabilità”.

Altra cosa è la difficoltà delle scuole ad accogliere la diversità, visto che ad essere privilegiato è il risultato. “Ci troviamo in una situazione in cui tutte le scuole si ritrovano a competere una con l’altra, sono tutte considerate accademie dipendenti, competono per risultati e quindi non vogliono avere al loro interno alunni difficili”. 

Ma la situazione non è diversa per quelle scuole che accolgono invece solo ragazzi speciali: innanzitutto perché è una sorta di ghettizzazione, dall’altra parte perché non è detto che chi si trovi in una situazione “protetta” non subisca lo stesso genere di trattamento delle scuole tradizionali. Per esempio esiste il bullismo anche qui.

Secondo poi bisogna dimenticare il gap: “Io non riuscirò mai a correre, qualche altro bambino non sarà mai in grado di leggere, qualche altro non sarà mai in grado di andare all’università, questo divario non è il problema. Il vostro problema è fare sì che il ragazzo con disabilità impari, migliori, faccia passi in avanti, non necessariamente recuperare alla pari degli altri, ma raggiungendo quello che può in base alle proprie potenzialità, imparando e traendo il massimo dalla scuola, questo è il vostro compito”.

l’inclusione non è un luogo fisico ma uno stato della mente” conclude Tom W. Shakespeare.

Una bella lezione insomma che dovrebbe essere imparata da tutti. E voi unimamme cosa ne pensate?

Intanto vi lasciamo con il post che parla di Bebe Vio, quando la disabilità non è un limite. 

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