Una mamma infatti ha scritto una lettera a Beppe Severgnini, giornalista e scrittore, su La27 ora.
“Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento”.
“Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose. Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono solo questi. Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini; ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»; ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.”.
“Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito. Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente”.
La lettera, indirizzata a Beppe Severgnini, ha totalizzato 50 mila Like su Facebook in mezza giornata, segnale che sono tante, tantissime, le mamme che condividono i pensieri dell’autrice.
Ed ecco quindi la risposta di Beppe, che ringrazia Silvia P. (nome di fantasia) e dice:
“il problema esiste; parlarne serve a esorcizzarlo, non a risolverlo. La società italiana è ancora dominata dai noi maschi, e le regole le facciamo noi. Regole vuol dire orari, ferie, permessi, promozioni, carriere. Vuol dire sguardi: quelli di chi ti fa capire che andar via presto o arrivare tardi, sai com’è, non va bene.
Una gravidanza non è un impiccio né una malattia. È la vigilia della festa della vita, che tutti dovremmo celebrare come merita. Lo facciamo? No. Le carenze pubbliche le conosciamo. Partiamo dalle cose semplici. I bambini non li porta a scuola lo Spirito Santo, che ha altro da fare. Negli USA ci pensa lo school bus; in Italia tocca ai genitori o ai nonni (quando ci sono). Le aziende – magari le stesse che organizzano convegni sul «valore delle donne» – spesso negano il part-time. Ho trovato una brava collaboratrice, anni fa, perché la radio dove lavorava le ha detto, dopo la nascita della figlia: tempo pieno o dimissioni. Il marito viaggiava per lavoro. Ha dovuto dimettersi. Altro che #fertilityday.”
“Diventar madri è un master d’alto livello. Si ritorna al lavoro più tenaci, più capaci di affrontare le difficoltà, più mature. Ma il datore di lavoro deve capirlo. Non è questione di legislazione, che esiste (le poche donne che ne abusano, lo sappiano: danneggiano tutte le altre). È questione di regole del gioco collettivo. Con queste carriere, con queste aspettative, con questi luoghi di lavoro e con questi colleghi, una giovane donna italiana deve scegliere: figli o carriera. C’è una terza via: il sacrificio disumano. Ma non si può e non si deve chiedere”.
Unimamme, voi condividete lo sfogo di questa mamma? Cosa le direste?
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