Il test NIPT sta cambiando la medicina prenatale: esplora vantaggi, dubbi e verità dietro questa tecnologia innovativa.
Un prelievo di sangue materno, nessun rischio per il feto, una finestra anticipata su alcune tra le principali anomalie cromosomiche: il NIPT (Non Invasive Prenatal Testing), noto come “test del DNA fetale”, è al centro di un dibattito che intreccia scienza, sanità pubblica, etica e scelte personali.

Presentato come strumento capace di individuare con grande accuratezza le gravidanze ad alto rischio di alterazioni dei cromosomi 21, 18 e 13, il NIPT ha cambiato in pochi anni l’approccio allo screening prenatale. Ma cosa può realmente offrire alle coppie? E come si inserisce nel complesso percorso della diagnosi prenatale?
Fin dal primo trimestre, minuscoli frammenti di DNA di origine placentare circolano nel sangue della madre. È questo “cell-free DNA” che, a partire dalla decima settimana di gestazione, può essere analizzato tramite un semplice prelievo.
La quantità di materiale fetale, detta frazione fetale, è cruciale per la riuscita del test: se insufficiente, l’esame può non dare esito o risultare meno affidabile. Da qui la raccomandazione di non anticipare troppo i tempi e di eseguire un’ecografia accurata prima del prelievo, così da orientare correttamente il percorso e intercettare eventuali indicatori di rischio che suggeriscano una diagnosi invasiva senza passare dallo screening.
Screening, Non Diagnosi cosa ci dicono i numeri del rischio
Il NIPT è uno screening, non un test diagnostico. Significa che ragiona in termini di probabilità, non fornisce certezze assolute. Gli studi internazionali hanno documentato una sensibilità molto elevata per trisomia 21 (sindrome di Down) e trisomia 18 (Edwards), prossima al 100% nelle casistiche migliori, e più variabile per la trisomia 13 (Patau).

Anche il tasso di falsi positivi è inferiore rispetto ai test tradizionali, riducendo il ricorso inappropriato ad amniocentesi e villocentesi. Tuttavia un risultato “ad alto rischio” deve sempre essere confermato con una diagnosi invasiva, l’unica in grado di dirimere il dubbio.
Ogni gravidanza comporta un rischio di base, stimato intorno al 3% per difetti congeniti di gravità variabile, a cui si sommano fattori personali, familiari e ambientali. Nel complesso, difetti congeniti vengono riscontrati in circa il 5% delle gravidanze. Non tutti sono diagnosticabili in epoca prenatale: né l’ecografia, né gli esami su sangue, né i test sul liquido amniotico possono garantire una fotografia completa dello stato di salute del nascituro. Il NIPT, dunque, amplia il ventaglio delle informazioni su specifiche anomalie cromosomiche, ma non risponde alla domanda “sarà sano?” in modo definitivo.
Per anni la strategia è stata indirizzare alla diagnosi prenatale invasiva le donne considerate “a rischio”, soprattutto per età materna avanzata. L’avvento degli screening, come il Test Combinato del primo trimestre (biochimica sierica più translucenza nucale) e il NIPT, ha cambiato paradigma: esami semplici, privi di rischi, rivolti a tutta la popolazione, capaci di selezionare in modo più accurato chi ha davvero bisogno di approfondimenti invasivi.
Importante ricordare che il Test Combinato, pur meno preciso sulla componente cromosomica, offre informazioni aggiuntive su altre condizioni, ad esempio alcune malformazioni cardiache. Per questo il NIPT non va inteso come sostitutivo, ma come integrazione. Non a caso in alcune realtà viene proposto come test di seconda scelta, successivo o in aggiunta al Test Combinato.
Il NIPT può essere particolarmente utile a chi desidera ridurre il ricorso a procedure invasive e ha un profilo di rischio aumentato per aneuploidie cromosomiche. Va però considerato che esistono situazioni che ne complicano l’interpretazione o aumentano la probabilità di test non conclusivo: gravidanze gemellari, fecondazione assistita, obesità materna, esecuzione precoce con bassa frazione fetale. Il risultato sul sesso e sulle anomalie dei cromosomi sessuali (come sindrome di Turner o Klinefelter) è un’informazione accessoria che richiede una consulenza attenta, per evitare fraintendimenti sul significato clinico.
Secondo il Ministero della Salute, i centri che eseguono il NIPT devono avere competenze in diagnosi ecografica e prenatale, offrire consulenza pre e post-test ed essere collegati a laboratori certificati, inseriti in programmi di qualità con personale formato. Oggi in Italia circa 50 mila donne all’anno ricorrono al NIPT, pagando tra 300 e 700 euro.

Il test non è attualmente incluso tra le prestazioni gratuite del Servizio sanitario nazionale, sebbene il Consiglio superiore di Sanità ne suggerisca l’introduzione. La mappa dell’offerta è frammentata: l’Emilia-Romagna ha avviato un programma di screening che ne prevede l’estensione regionale dopo una fase pilota a Bologna; la Toscana lo offre gratuitamente alle esenti da ticket, con compartecipazione per le categorie a rischio e con tariffe calmierate per libera scelta, tra 200 e 400 euro. La discussione si sta spostando anche sulla sostenibilità economica: diversi studi internazionali suggeriscono che l’adozione del NIPT come secondo livello potrebbe ridurre complessivamente i costi legati alle complicanze di procedure invasive non necessarie.
Più che una tecnologia, il NIPT è un percorso che richiede informazione chiara e supporto. La consulenza pre-test serve a spiegare cosa il test può e non può dire, il significato delle probabilità, la possibilità di risultati non conclusivi e la necessità di conferma invasiva in caso di esito ad alto rischio. La consulenza post-test aiuta a interpretare correttamente il responso, a valutare eventuali ulteriori indagini e a collocare i risultati nel contesto di valori, aspettative e risorse della coppia. In un ambito in cui le decisioni possono aprire a scenari delicati, dall’attesa vigile all’interruzione di gravidanza, la qualità della comunicazione è parte integrante della cura.