Un odore di pasta in cottura, il vapore che sale, l’acqua che ribolle. Una scena normale, finché non scopri che nell’acqua e nel grano circolano tracce di TFA, un composto “testardo” che non se ne va facilmente. È qui che la normalità si incrina e scatta la domanda: cosa stiamo davvero portando a tavola?
Cos’è il TFA e perché finisce nel piatto
Il TFA è l’acido trifluoroacetico, un sottoprodotto di processi industriali e della degradazione di alcune sostanze fluorurate, compresi refrigeranti di nuova generazione e pesticidi fluorurati. È considerato un PFAS a catena molto corta: estremamente persistente e mobile. Si scioglie bene in acqua, viaggia, entra nei suoli, raggiunge le colture.
Negli ultimi anni, agenzie europee e laboratori indipendenti hanno segnalato un aumento del TFA in fiumi, falde e piogge. È uno di quei contaminanti che non “sparisce” e che i sistemi di trattamento ordinari intercettano male. E qui arriviamo al punto: se l’acqua è un veicolo, il grano irrigato può fare da porta d’ingresso al nostro cibo quotidiano, dalla pasta ai cereali.
Ho seguito per settimane i resoconti tecnici e le anteprime di uno studio europeo che ha analizzato TFA in prodotti a base di frumento. I ricercatori hanno rilevato la presenza della sostanza in diversi campioni, inclusi prodotti venduti in Italia. I dati completi e comparabili non sono ancora pubblici in forma integrale, ma la tendenza è chiara: la contaminazione non è episodica. È diffusa, con livelli variabili a seconda dell’area e della filiera.
Rischi, controlli e cosa possiamo fare adesso
Domanda inevitabile: quanto è pericoloso? Le autorità sanitarie considerano il TFA meno bioaccumulabile di altri PFAS, ma la sua ultra‑persistenza desta preoccupazione. La letteratura disponibile indica una bassa tossicità acuta, mentre restano lacune su effetti a lungo termine e su esposizioni cumulative da acqua potabile e alimenti. EFSA ha fissato valori di riferimento molto restrittivi per alcuni PFAS “storici”, ma al momento non esiste un limite UE specifico e armonizzato per il TFA negli alimenti; diversi Paesi stanno elaborando orientamenti per le acque. È un terreno in evoluzione: serve cautela, servono dati.
Sul fronte dei controlli, il nodo è tecnico e normativo. I metodi standard pensati per PFAS a catena lunga possono sottostimare composti molto solubili come il TFA. Le utility idriche migliorano i monitoraggi, ma l’abbattimento richiede tecnologie come osmosi inversa o resine a scambio ionico; il carbone attivo, da solo, spesso non basta. In agricoltura la chiave è a monte: ridurre le emissioni industriali, valutare l’uso di sostanze fluorurate e rafforzare la tracciabilità delle acque di irrigazione.
E noi, nel quotidiano? Alcune scelte sono di buon senso:
- Usare acqua di cottura per la pasta solo per quel pasto e scolarla. Il TFA è molto solubile e tende a restare nell’acqua.
- Informarsi sui report della propria azienda idrica e, se motivato, valutare filtri certificati a osmosi inversa.
- Preferire filiere trasparenti e produzioni che dichiarano pratiche di gestione dell’acqua; sostenere chi investe in test per PFAS emergenti.
- Chiedere più trasparenza: senza dati comparabili su grano, pasta e cereali, il dibattito resta monco.
Non c’è spazio per allarmismi gratuiti, ma neppure per minimizzare. L’evidenza che il TFA bussi alla porta dei nostri alimenti pone una scelta collettiva: investire in monitoraggi moderni e in prevenzione alla fonte. Intanto l’acqua torna a bollire. E mentre scoliamo la pasta, la domanda resta sospesa sul vapore: riusciremo a cucinare il futuro con ingredienti più puliti di così?