Scopri il Vero Galateo del Sushi: Il Maestro Yasuda Rivela l’Errore Comune di Usare le Bacchette

Immagina il banco lucido, il profumo del riso che sale tiepido, il silenzio attento. Un maestro ti osserva, poi sorride: quello che credi sul “galateo del sushi” è, in parte, un’illusione.

Il maestro Naomichi Yasuda

Figura di culto tra Tokyo e New York, ha raccontato al quotidiano britannico Mirror una visione che scardina abitudini diffuse. Non parla solo di gusto. Parla di rispetto. Per la mano del cuoco, per il tempo, per la materia viva. In Giappone, la tradizione del washoku è dal 2013 patrimonio culturale immateriale UNESCO: un contesto che dà peso a ogni gesto, anche al modo in cui sfioriamo un boccone con la salsa.

Un maestro che scardina abitudini

Noi occidentali spesso partiamo da due automatismi. Prima: intingere generosamente nella salsa di soia. Seconda: stringere le bacchette come un lasciapassare di buona educazione. Sono due scorciatoie comode, ma rivelano poco dell’essenza del sushi.

Le guide ufficiali dell’Ente Nazionale del Turismo del Giappone (JNTO) ricordano tre regole semplici e verificabili: non separare il pesce dal riso, intingere poco e solo dalla parte del pesce, evitare di mescolare il wasabi nella soia in contesti formali. Il motivo è tecnico: il riso, lo shari, è calibrato su acidità e temperatura; il pesce, il neta, regge l’aroma con delicatezza. Diluire tutto in una pozza scura appiattisce il lavoro del cuoco.

Il punto che sorprende arriva a metà percorso. Yasuda invita a riconsiderare l’idea che le bacchette siano obbligatorie. Dice, in sostanza: l’errore non è usare le bacchette in sé, ma credere che siano la norma per ogni morso. Per il nigiri, la tradizione ammette, e spesso preferisce, le dita. Le mani danno controllo: proteggono la forma, dosano la soia, preservano la temperatura del riso. Sulle bacchette, c’è anche etichetta: non strofinarle tra loro, non puntarle verticali nella ciotola, non passare cibo da un paio all’altro.

Come si mangia davvero il sushi

Se il pezzo è un nigiri: Prendilo con pollice, indice e medio. Il riso rimane stabile, il pesce non scivola. Ruotalo e sfiora la soia con il lato del pesce. Una goccia, non un bagno. Porta in bocca dal lato del pesce. Una volta sola, se possibile.

Se è sashimi, le bacchette sono corrette. Se è un maki compatto, le dita vanno benissimo. Il gari (lo zenzero) è un pulisci-palato, non una guarnizione sul sushi. In omakase, il cuoco ha spesso già dosato il condimento: fidati della mano che ti serve il boccone.

Un dato pratico che fa la differenza: molti maestri servono lo shari tiepido, intorno alla temperatura del corpo, mentre il pesce non dovrebbe essere freddo da frigorifero. Così aromi e texture si incontrano. Questa attenzione è documentata nelle scuole tradizionali e ricorre nelle guide professionali; l’intervista specifica al Mirror non è disponibile in versione integrale, ma le indicazioni coincidono con quanto pubblica JNTO e con la prassi dei principali sushiya.

Ci sono sfumature

In locali informali, aggiungere un tocco di wasabi non è un sacrilegio. Ordinare dai tagli più delicati ai più ricchi è una buona prassi, ma non una legge. In Giappone, molti clienti parlano col cuoco, osservano il ritmo, chiedono un consiglio. Anche questo è galateo: ascoltare.

Forse, allora, il “vero galateo” non è una lista di divieti. È una postura. È lasciare che un boccone minuscolo ti racconti una storia intera. La prossima volta che ti siedi al banco, proverai le dita sul primo nigiri? Potresti scoprire che il dettaglio che evitavi è proprio quello che ti mancava.

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