Sempre meno laureati: a quando il cambiamento?

Vale ancora la pena laurearsi?

Ancora meglio: ha ancora senso per le famiglie italiane, vista la crisi, affrontare la grande spesa del mantenimento di un figlio all’università (spesa che molto spesso porta i ragazzi ad andare via dalle loro città per studiare in altri luoghi con conseguente spesa di affitto, bollette …) per poi ritrovarsi quegli stessi ragazzi, disoccupati o impiegati in modo precario e spesso senza prospettive?

Secondo un articolo apparso sul Sole 24 ore, ciò che emerge negli ultimi anni, dalle statistiche in materia di immatricolazioni universitarie, è che dal 2003 c’è stato un vertiginoso calo delle iscrizioni definite ” tardive”, ovvero quelle che riguardano i ragazzi che si iscrivono all’università dopo i 22 anni.

Grazie al modello 3+2 (laurea triennale e successiva specialistica) si erano infatti riavvicinati all’università tutti coloro che avevano precedentemente abbandonato, perché il modello introdotto dava loro la possibilità di concludere ciò che era rimasto in sospeso, portandoli a voler condurre a termine il percorso triennale e ad ottenere almeno una laurea di primo livello.

Perché ora questa inversione di tendenza?

A quanto pare da una ricerca della Fondazione Agnelli, è proprio nella sfiducia delle famiglie circa gli sbocchi lavorativi post- laurea che risiede la ritrosia dei ragazzi, e la loro volontà nel non investire più in un futuro di studi.

Il dato preoccupante dietro a questa analisi è che il vero “flop” del meccanismo è da ricercarsi proprio nelle aziende italiane, che tendono ad impiegare meno laureati di quanto non facciano invece le aziende in Europa. La conseguenza di questo mancato investimento da parte delle aziende è una maggiore arretratezza sul piano della competitività.

Altro dato rilevante è che le università, invece di aggiornare i percorsi formativi in relazione al mondo del lavoro, sono rimaste ancorate a vecchi sistemi formativi, rendendo i nostri studenti non al passo con la moderna richiesta di competenze, e quindi assai poco inseribili in un mercato del lavoro in continua trasformazione.

Quanto ancora bisognerà aspettare  prima di riuscire ad integrarsi con una modernità che ci renda davvero cittadini d’Europa?

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