Abortire e non sentirsi in colpa: parliamone

Per una volta vorrei essere seria, perché l’argomento lo richiede.

Parliamo di aborto, una parola tabù che va spesso taciuta e vissuta con vergogna. Perché la società non ammette che una donna non abbia il naturale desiderio di diventare madre.

Io sono contraria, perché non sono Dio e non posso pensare di avere il diritto di scegliere tra la vita e la morte di un bambino. Ok, ti dicono che fino a 12 settimane quello che hai in pancia non sia neanche un bambino, e che quindi non si stia uccidendo proprio nessuno (io ho un’ecografia della nana a 10 settimane e sembra già una persona in miniatura con le manine e i piedini, quindi non è proprio così…).

Chiusa questa parentesi, però, mi ha incuriosito il titolo di un libro di Chiara Lalli,La verità vi prego sull’aborto” in cui si racconta che la protagonista sceglie volontariamente di abortire e poi non si sente affatto in colpa, perché non vuole diventare madre.

E’ una persona crudele? E’ una persona senza un’anima? Non lo so.

Vengo, proprio in queste settimane, dall’esperienza del corso pre-parto, dove alcuni donne prima di riuscire a rimanere incinte hanno dovuto subire il dolore di un aborto, qualcuna anche più di uno. E sentire le loro esperienze di mamme di figli mai nati, mi fa pensare… Com’è possibile agire un aborto? Dire: “Io un bambino non lo voglio. Scelgo l’interruzione di gravidanza?”. Quando e perchè ciò avviene?

Non mi sento e non voglio giudicare queste donne. Però esistono le precauzioni, se un bambino non lo vuoi c’è il modo per evitarlo (non parliamo quindi di casi estremi, come ad esempio gravidanze indesiderate dopo una violenza); in più non deve essere una scappatoia, una soluzione. Essere così leggeri e superficiali da dire: “ma si, tanto poi c’è la soluzione”.

Mi è difficile immaginare donne che, soprattutto in quest’epoca dove l’informazione è veramente a portata di mano, si ritrovano in situazioni non volute. Poi, per carità, ognuna ha il proprio percorso, per cui arrivare a prendere una decisione del genere non è certo semplice.

L’autrice del libro lancia però una provocazione: quanto di questo dolore post traumatico è reale e quanto invece è indotto dalla società? In altre parole, la Lalli sembra affermare che:

  • se sei distrutta, allora sei una persona rispettabile,
  • se non lo sei, e appunto ti senti sollevata, allora diventi da condannare.

Detto ciò, secondo voi è peggio abortire o mettere al mondo un figlio non voluto?

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